Una famiglia, visibilmente in lutto, saluta militarmente il passaggio di un treno. All’interno del mezzo di trasporto Paul Fusco, fotografo allora quasi sconosciuto ed autore di questa fotografia, e la salma dell’uomo che aveva provato, invano, a regalare un bellissimo sogno di speranza agli americani: Bob Kennedy.
L’immagine in questione fa parte della serie denominata “Funeral Train” ed è una delle immagini più struggenti, angosciose e cerimoniali dell’intera storia americana.
Te la racconto in questo articolo, sperando tu possa cogliere, da questo momento di tristezza e di ingiustizia, l’importanza di essere testimone di alcuni eventi. Essere sempre lì in prima linea è la missione di noi fotografi.
Quando ti trovi al momento giusto nel luogo giusto
Il treno della vita passa una sola volta per ognuno di noi e il treno di Paul Fusco, come in quelle storie in cui le coincidenze prendono il sopravvento, è passato durante uno dei giorni più tristi per l’America: il funerale di Bob Kennedy.
Siamo nel 1968. Il fotografo americano lavorava per Look, rivista bisettimanale dal passato illustre. Realizzava principalmente fotografie di cronaca e, ogni tanto, qualche reportage più impegnato con al centro l’America e le sue innumerevoli sfumature.
Quel giorno era diverso dagli altri: le strade americane non erano animate dal solito entusiasmo che le contraddistingueva e le rendeva le più belle del mondo. Si percepiva una certa tristezza nei volti dei passanti e in quelle saracinesche dei locali mezze chiuse in onore della perdita di un grande uomo.
Se ne va Bob Kennedy, forse il miglior Presidente che l’America abbia mai avuto — o avrebbe potuto avere, visto il poco mandato che lo tolse, prima del previsto, dalla sua poltrona nella Casa Bianca.
Paul Fusco si sentiva particolarmente giù di morale quella mattina. Quel giorno non doveva lavorare ma voleva assistere, comunque, al funerale di Kennedy. Prima di raggiungere il luogo nefasto, passò per gli uffici della redazione del suo giornale — proprio dietro alla cattedrale dove si sarebbe svolto l’evento — per capire quali novità avrebbero svoltato la sua giornata.
L’angoscia in quegli uffici era palpabile, quasi insopportabile. Appena entrato, il capo redattore, un omaccione dal cuore d’oro, chiamò Paul in privato, chiedendogli di fotografare velocemente l’evento in chiesa per poi dirigersi al treno, dove il corpo di Kennedy sarebbe stato trasportato da New York fino al Maryland. Era lo scoop che serviva al giornale, ma anche ai lettori americani.
Non ricevette ulteriori informazioni, ne consigli su come agire. Paul Fusco, che ormai conosceva a menadito il suo ruolo, si fece coraggio, prese le sue tre fotocamere e 30 rullini (Kodachrome 64 e qualche Ektachrome 400) ed uscì dalle porte di quell’ufficio, per dirigersi, con grande rammarico, al funerale. Era il suo giorno libero, ma opportunità come queste capitano solo una volta nella vita. Non coglierla sarebbe stato da folli.
Arrivato lì capì immediatamente che avrebbe perso solo tempo. Passò pochi minuti dentro alla folla, alle porte della Cattedrale di St. Patrick. Era immerso da persone in lacrime e dalla stampa che faceva a botte per rimanere in primo piano e catturare ogni minimo istante di quell’evento. Per lui, in quella marea confusionaria di persone, tra sciacalli e sofferenti, non c’era posto. Sarebbe stato inutile continuare ad insistere.
Si diresse allora velocemente verso il treno, sperando di trovare un posto vicino al vagone in cui il corpo di Kennedy sarebbe stato riposto. Le porte erano controllate da delle guardie — stranamente lì per proteggere chissà cosa — ma il suo lasciapassare della stampa gli permise di entrare senza troppi problemi. Lo fecero sedere nell’ottavo vagone e gli intimarono, quasi in cagnesco, di non muoversi da quel posto.
Si chiudono i portelli e di stampa o di persone importanti non c’è neanche l’ombra. Cala il silenzio e niente sembra poter accadere in quel vagone svuotato dai sentimenti e dalle voci. Un colpo di fortuna? O per l’ennesima volta sarebbe tornato a casa senza uno scatto?
Paul si inizia a lambiccare il cervello. Si chiede come agire e se magari dirigersi vicino alla bara, con il rischio di essere buttato fuori, oppure scendere direttamente da quel maledetto treno, per lasciarsi tutto alle spalle. Stava iniziando ad agitarsi, ma poi tornò in se. Non poteva farsi annebbiare dalle emozioni, c’era un lavoro da portare a casa.
Come si suol dire, ogni cosa ha uno scopo, un suo motivo nel grande scacchiere dell’esistenza umana, e quella di Paul Fusco era quella di rimanere lì, su quel treno, davanti a quel finestrino, ad assistere all’ultimo saluto del popolo americano al loro eroe.
È bastato attraversare il primo tunnel, dall’oscurità alla luce, per farsi abbagliare da una coltre di gente, di ogni nazionalità, età ed estrazione sociale, per capire che la vera storia era lì davanti ai suoi occhi: l’ultimo viaggio del Presidente nel territorio americano: il luogo dei suoi elettori e dei suoi più stimati compagni di vita.
Paul Fusco non poteva saperlo, ma lo scoprì qualche ora dopo, quando, ormai sfinito dalle lacrime, vide quelle manifestazioni di umanità e di patriottismo. Prese la sua fotocamera ed iniziò a scattare senza sosta, anche quando la luce si fece più fioca, domandandosi insistentemente cosa ne sarebbe uscito fuori.
Bambini, donne, uomini ed anziani, vestiti con gli indumenti di lavoro o di casa, tutti riuniti lì ad accompagnare Bobby, come piaceva farsi chiamare dai suoi amici più stretti, nel suo ultimo viaggio verso la pace eterna.
Non c’era tempo per pensare ed inquadrare: le scene parlavano da sole con una forza e un potere indescrivibile. Anche la luce, straordinariamente, aveva assunto un ruolo determinante in quell’opera teatrale, diventando anch’essa parte del rito funebre. Paul non crebbe ai suoi occhi, sembrava essere tutto perfetto e lui l’unico testimone di quella magia.
Il suo stupore era alto, ma si fece ancora più grosso, quando vide quella famigliola sul ponticello: il simbolo di tutto il dolore americano e la consapevolezza della perdita di un sogno che non sarebbe mai più tornato.
Quell’immagine gli rimase nel cuore e diventò, in quel lungo tragitto di otto ore, il più bel premio che la vita gli potesse donare. Sembrava essere una giornata qualunque ma si trasformò ben presto nel giorno più indimenticabile della sua esistenza. Tutto il popolo americano nelle sue foto, senza muoversi, neanche di un metro, dal finestrino di quel treno. Se questa non è magia non so proprio cos’altro possa esserlo!
Lo avrei già capito da te. Quelle immagini stravolsero l’opinione pubblica ma, stranamente, non il giornale per cui lavorava il fotografo. Non ebbe il coraggio, e forse la lungimiranza, di pubblicare quel lavoro tanto diverso da quello che si aspettava la gente (neanche LIFE, ahimè, ne capì il valore).
Per fortuna quest’immagine, come molte altre, furono poi rivalutate e pubblicate, quarant’anni dopo, in un grande volume accompagnato da una straordinaria mostra — patrocinata proprio dal nipote di Kennedy che rimase sbalordito dal lavoro di Paul e dalla scarsa capacità critica di Look Magazine.
Paul, al contrario del suo capo redattore, fu molto intelligente, e tenne molte stampe per se, chiuse in cantina con la speranza di trovargli presto un scopo. Tutto il resto, ovvero il grande archivio di quell’evento, che contava circa 2000 fotografie, prima custodito da Look Magazine, fu, per fortuna, salvato dalla Library of Congress americana.
Ogni tanto tenere in fresco le proprie opere è la scelta migliore, soprattuto se credi veramente nella forza di certe fotografie. Passarono quarant’anni da quegli scatti ma la ferita di quei momenti non si era ancora rimarginata. Bob Kennedy era ancora nei cuori dei suoi cittadini.
Se ci pensi il tragitto fotografo da Paul è una grande metafora della vita e della politica americana. Bob Kennedy sembrava essere una promessa di riscatto per la maggior parte del popolo americano; il rimedio per vedere la luce, dopo tanti anni di ingiustizie e soprusi.
Vedere sfocare quel sogno, in quelle fotografie mosse dal movimento del treno e dal calare della luce, come una dissolvenza, come la chiama meravigliosamente Mario Calabresi nel suo “A occhi aperti“, mi fa pensare a come molte volte ci vengano offerte delle opportunità irripetibili e di come la ricerca della felicità sia spesso per molti un sogno irraggiungibile.
Mi conferma inoltre, ancora una volta, che farsi trovare al momento giusto, nel posto giusto, sia la cosa più importante per noi fotografi e che la vera esperienza sia quella del viaggio e mai il punto di arrivo o di partenza. Il buon lavoro, alla fine, viene sempre ripagato.
Finisco quest’articolo con una bella citazione di Paul, un facezia irriverente che nasconde un grande messaggio morale. Spero ti aiuti a crescere e a darti uno stimolo in più a continuare il tuo lavoro.
Non buttate via niente. Tenete tutto quello che scrivete, fotografate o disegnate. Può sempre servire, chissà, tra quarant’anni – Paul Fusco