Dal 2018, Gianfilippo De Rossi cura "Archivio come eravamo", la raccolta di immagini del prozio Gianfranco che ci mostra un'Italia quasi frutto di una fantasia

Lo scorrere compulsivo di uno scanner sempre in funzione riempie le stanze di un piccolo appartamento in quel di Roma. È un rumore meccanico, assordante, secco; uno strepito che sa di mistero, e di grande inquietudine. Se non sapessi a cosa sto andando incontro, mi sarei fatto prendere dal panico, come uno di quei personaggi dei libri di Lovecraft che tanto amano cacciarsi nei guai. Tuttavia il suono mi è familiare. L'odore dei chimici, pure. Chi ha bazzicato almeno una volta in una camera oscura, li avrebbe riconosciuti come me; e subito sorriso di gioia.

«Ormai vivo costantemente con questo suono che accompagna ogni mio movimento in casa», mi racconta Gianfilippo De Rossi, che all'ultimo piano di un vecchio palazzo romano ha costruito la sua dimora-studio, un tesoro fatto di vecchie fotografie, macchine analogiche e ricordi di ogni genere.

Quelle stanze - e questa è stata una delle tante piacevoli scoperte di quella giornata - accolgono una percentuale di amore per la materia fotografica che difficilmente può essere superata altrove. Le pareti sono piene di stampe, di ogni tipo e colore; diversi negativi sparsi sui tavoli e altrettanti obiettivi e pellicole sulle mensole del soggiorno: prodotti dai nomi stranieri, che al solo leggerne le etichette e contarne il numero, viene un grosso mal di testa. «Non potrei vivere in una casa senza una fotografia appesa», mi dice sorridendo Gianfilippo, che mentre mi offre un bicchiere d'acqua, mi indica un vecchio mobile, dicendomi di aprirne i cassetti.

Quel mobile, in qualche modo, è il motivo della mia visita nella sua casa-studio. Non ha niente di speciale, all'esterno: risale forse agli anni '50, di legno scuro, abbastanza pesante. Il vero tesoro, semmai, sta all'interno; un bene prezioso che Gianfilippo sta pian piano facendo riemergere dal buio, curandone personalmente lo sviluppo e la visibilità online. Si tratta dell'Archivio Come Eravamo, una raccolta di fotografie del prozio Gianfranco Torossi, che nel periodo tra gli anni '50 e '70, ha raccontato un'Italia che non c'è più e «che forse non è mai esistita davvero».

"Archivio come eravamo", immagine di © Gianfranco Torossi // Curatela © Gianfilippo De Rossi

Quella di Gianfilippo è una storia dai tratti cinematografici. Tanto quanto quella del suo prozio, protagonista prestatosi inconsapevolmente a questo progetto, è fatta di scelte decisive e di incontri inaspettati. «Fin da piccolo - mi racconta il fotografo romano - sono stato abituato a maneggiare pezzi di fotocamera o pellicola sviluppata. Quasi per gioco, a casa del prozio Gianfranco, immaginavo quali storie si celassero dietro a quegli strani strumenti e cosa da questi, la mia mente creativa, potesse tirarne fuori. È stato forse questo primo e incosciente incontro con la fotografia a farmi innamorare perdutamente di lei».

Una passione che presto si trasforma in lavoro, quando nel 2006, l'anno della vittoria dei mondiali, Gianfilippo si trova costretto a trasferirsi a Los Angeles, per seguire la madre, impiegata del consolato italiano. Lì, rapito dalle atmosfere di un'America dalle mille opportunità, si iscrive ad un corso di fotografia al Santa Monica College; un'esperienza che lo stravolgerà, immergendolo nella frizzante Hollywood dell'epoca e negli studi di "mostri sacri" come Douglas Kirkland: fotografo delle star della musica e del cinema, ma anche tra i primi a credere in lui.

«Douglas era incredibile - continua Gianfilippo; mi è stato presentato da un'amica di famiglia ed è stato subito amore a prima vista. Non masticavo ancora bene la lingua inglese, eppure mi prese subito come terzo assistente del suo studio. Non esagero dicendo che quello studio era un vero e proprio museo della fotografia; accanto ai suoi ritratti delle star della musica, c'erano le immagini di fotografi pazzeschi: fotogrammi che oggi non faremmo fatica a trovare nei libri di storia. Sotto la sua ala, sono cresciuto tantissimo, divertendomi anche parecchio [ride]».

"Archivio come eravamo", immagine di © Gianfranco Torossi // Curatela © Gianfilippo De Rossi

E qui lo fermo. La storia si infittisce. Per quanto visitare la Los Angeles dell'epoca attraverso i suoi ricordi sia molto allettante, mi inizio a chiedere cosa centri Roma in tutto questo e quando il fatidico archivio del prozio Gianfranco sia entrato nella vita di Gianfilippo De Rossi. Lui, senza preamboli, me lo spiega. «Tornato a Roma nel 2018 - mi dice -, ho ripreso a frequentare i luoghi della mia infanzia. Dopo la morte del mio prozio, c'era una casa da sistemare e tanto materiale da guardare. Mio padre avrebbe buttato tutto, ciononostante io sentivo che dentro quelle stanze, le stesse che da piccolo mi avevano accolto così caldamente, c'era qualcosa di importante, un mistero che solo le fotografie potevano svelarmi. Lì ho scoperto, sparse nei cassetti, parti della vita di mio prozio che non conoscevo - i suoi amori; il suo occhio per le cose; la passione per gli obiettivi - ma anche stralci di una Roma da neorealismo. Avevo davanti una storia più grande delle sue parti; un racconto immenso, immagini emozionanti; un legame, quello col tempo e la Capitale, che mi chiedeva a gran voce di essere riallacciato. Non potevo lasciare che tutto ciò scomparisse nel nulla. Dovevo a tutti i costi dargli una possibilità».

In quell'Archivio Come Eravamo, Gianfilippo, ha scovato fotografie di rara bellezza. Composto principalmente da negativi, diapositive e stampe dal formato tascabile (dagli anni 30 ai 90), l'archivio ci mostra un'Italia che non c'è più: un paese con una forte identità, curato nel vestiario, composto negli atteggiamenti; un popolo - mi dice Gianfilippo, che oltre a fare fotografia, studia con passione storia moderna all'università di Roma - che esprime uno stile di vita ormai caduto in disuso.

«Quella raccontata da mio prozio è una vita borghese. È forse questo aspetto a rendere ancor più unico il suo archivio. Attraverso le sue immagini è possibile scorgere anfratti di un'Italia oggi invasa dal turismo. Tuttavia è anche possibile comprendere quali battaglie muovessero gli animi dell'epoca, come l'amore, in tutte le sue forme, fosse un elemento centralissimo nella quotidianità delle persone e, soprattutto, come la borghesia - poco trattata negli archivi fotografici - trascorreva le sue giornate. Pensare che tutto ciò scomparirà pochi anni dopo - gli anni '80 rivoluzioneranno il mondo - fa sorridere. Mio prozio scattava per il gusto di catturare dei momenti e di vedere cosa gli strumenti fossero in grado di fare. Chi avrebbe mai detto che le sue immagini avrebbero acquistato un altro valore?».

"Archivio come eravamo", immagine di © Gianfranco Torossi // Curatela © Gianfilippo De Rossi

Il legame che unisce Gianfilippo e Gianfranco non è solo parentale. Lo si vede dagli occhi, da come il fotografo parla del prozio; lo definirei quasi istintivo, speciale: una connessione tra due individui che hanno condiviso la passione per le storie ma anche tanti segreti rimasti inesplorati. «Mi emoziona sempre tanto pensare a lui, al suo viso, ai racconti che mi faceva di quella Roma prima della guerra - mi dice il fotografo. Sai, mi parlava spesso di fotografia. Gli è stata regalata la sua prima fotocamera negli anni '30. Era giovanissimo; l'ha trovata incartata dentro un fazzoletto. Una macchinetta con cui io stesso giocavo e che ora conservo con gelosia nella mia collezione. Ogni volta che la riprendo in mano - ancora funziona! - ritorno a quelle immagini di un'adolescenza sconosciuta e di un'Italia mai vista prima ad ora». Era forse destino, penso; arrivare a riprendere quelle stesse fotografie che lo incuriosivano da piccolo e cercare di farle funzionare insieme. Per un'artista abituato poco tempo fa a lavorare perlopiù su immagini singole o su quelle delle grandi star del cinema, non può essere solo un caso: c'è qualcosa di magico, che va oltre ai limiti della ragione e dell'editing, in questa romantica riscoperta fotografica.

"Archivio come eravamo", immagine di © Gianfranco Torossi // Curatela © Gianfilippo De Rossi

Mi accorgo di lei (la magia), e ne ho forse conferma, scorrendo brevemente le fotografie che Gianfilippo ha curato, sviluppato e condiviso su Instagram (senza modificarne, in camera oscura, neanche un'oncia - mi assicura). Sono tante, ma unite da una sottile linea. La magia è nello sguardo di Gianfranco, che con estrema trasparenza ci porta dentro il suo mondo fatto di donne, ironia e dolce vita; ma anche nella scelta delle fotografie del pronipote, che guidato dall'istinto e dalle emozioni, ci lascia immaginare un'epoca dove tutto era possibile, dove i sognatori, di ogni Regione e stato sociale, potevano ancora permettersi di sognare. Un binomio tra le parti che poteva nascere solo da due persone interconnesse e che nell'archivio, il contenitore di gioie e dolori per eccellenza, trova la sua celebrazione migliore. Quell'Italia lontanissima era un premio da riscattare e chiunque, anche i meno abbienti, potevano averne una piccola fetta.

"Archivio come eravamo", immagine di © Gianfranco Torossi // Curatela © Gianfilippo De Rossi

Mentre osserviamo il risultato di una cianotipia che vede protagonisti il prozio e una donna misteriosa, le domande si accavallano nel mio taccuino. Una in particolare è segnata in rosso: devo conoscere la sua risposta. In breve, mi inizio a chiedere quanto di questo materiale fosse destinato a rimanere nei cassetti e quanto, invece, ad essere stampato e messo in esposizione. Un dilemma alla Vivian Maier, potremmo dire; che assume una sua rilevanza soprattutto di questi tempi, dove ogni archivio, di famiglia o di perfetti sconosciuti, diventa un possibile tesoro da sfruttare commercialmente - anche all'insaputa degli eredi o dei fotografi stessi; e così rilancio la domanda a Gianfilippo, che prontamente mi risponde.

«Non so cosa mio prozio penserebbe di questa cosa. Molto probabilmente mi starà maledicendo, da là sopra [ride]. Sono consapevole di avere una grande responsabilità nei confronti di un archivio che non mi appartiene. Per questo cerco di fare una selezione attentissima del materiale e delle scene che voglio mostrare su Instagram. Cerco di rispettare la privacy della mia famiglia. Mi confronto spesso con mio padre per sfatare possibili dubbi su immagini in cui non riconosco volti o situazioni. Quello che mi interessa, alla fin fine, è mostrare del materiale che sia storicamente e artisticamente utile. Ci sono momenti fotografati che non ho mai mostrato - come la foto di mia nonna appena diventata madre - e che tengo solo per me. Saper trovare il giusto equilibrio tra narrazione, emozione e documento è tutto. E poi io amo gli errori - mio prozio era un asso in questo!-, molto spesso raccontano più di altre immagini perfettamente inquadrate o a fuoco».

"Archivio come eravamo", immagine di © Gianfranco Torossi // Curatela © Gianfilippo De Rossi

Lo scanner continua a scorrere freneticamente. Ci spostiamo intanto dalla veranda alla scrivania; e lì che Gianfilippo mi mostra il materiale digitalizzato. È immenso, l'archivio; mi servirebbero intere settimane per vederlo tutto. Eppure qualcosa nel mucchio riesco subito a coglierla: tra le tante fotografie che mi incuriosiscono ci sono quelle del mercato di Porta Portese, un mercato storico di Roma aperto proprio al pubblico in quegli anni (1945). Il nome non ti sarà nuovo, immagino. È un luogo che i fotografi di strada frequentano spesso, con situazioni che però un tempo contemplavano - e lo si vede bene dai fotogrammi - meno folla.

Ecco no. Qui capisco l'esigenza del non cadere nell'autobiografico. Nel saper scegliere, come mi ha suggerito Gianfilippo, situazioni che fossero belle da vedere ma anche importanti a livello storico. In quel mercato si vede la Roma dell'epoca. I suoi costumi. Il suo rapportarsi agli spazi pubblici. Caratteristiche che una banale cartolina potrebbe tentare, in qualche modo, di emulare, ma che tuttavia cederebbe subito il passo di fronte alla qualità dell'occhio di Gianfranco Torossi: un amatore come tanti di noi, eppure contraddistinto da una capacità narrativa e un gusto per le inquadrature da far invidia a chiunque. Curare un archivio, insomma, ci sottolinea Gianfilippo, non è solo mettere in linea una raccolta di immagini del passato, piuttosto spalancare un porta verso un qualcosa che ci appartiene, percettibilmente, a tutti. Lo sguardo di Gianfranco è individuale, nonostante ciò ci scuote da dentro, e lo fa con chiarezza.

"Archivio come eravamo", immagine di © Gianfranco Torossi // Curatela © Gianfilippo De Rossi

Archivio Come Eravamo è in continuo sviluppo. In questo momento, raccoglie e mette in esposizione gran parte del materiale su Instagram, in una pagina apposita. Gianfilippo non smette mai di scannerizzare materiale e, soprattutto, di stamparlo, perché nella stampa, mi dice lui, «c'è ancora tutto il senso della fotografia». Credo che abbia ragione. Le stampe e i negativi di Gianfranco Torossi nascondono tracce che meritano di essere scovate. Guardarli con attenzione è un atto che travalica il solo interesse artistico: viene difficile davanti a queste espressioni di quotidianità non domandarsi dove quell'Italia tanto semplice e felice sia finita; e cosa, di quei tempi non troppo lontani, sia rimasta nella nostra cultura sociale.

Prima di lasciare Gianfilippo alle sue cose, ho un'ultima domanda da fargli, forse la più importante per capire quale fuoco lo animi in quella che sembra essere un'impresa titanica: scannerizzare migliaia di fotografie senza sapere se ne varrà mai la pena.

Cosa muove, quindi, Gianfilippo De Rossi nella sua ricerca? Lui mi svela: «Mi piacerebbe poter comunicare tramite questo archivio la necessità di tornare a interrogarsi su chi siamo, su chi siamo stati e cosa dal passato possiamo prendere come riferimento per il nostro futuro. Spero di poter dare un senso a tutto questo materiale che ho conservato nei cassetti. Le immagini del mio prozio hanno dei valori e delle storie che credo vadano condivise con il mondo. Oggi abbiamo tanti strumenti per poter riconsegnare quel senso di comunità e bellezza al pubblico; sarebbe un peccato continuare a ignorarli. E poi, perché no, mi auguro inoltre di spingere chi sta dall'altra parte a comprendere il valore della fotografia analogica e della contemporaneità. Sarebbe bello poter contribuire in ambi due i sensi; dire, insomma, che fotografare è un atto di libertà ma anche che dentro ogni archivio c'è un tesoro da riscoprire».

"Archivio come eravamo", immagine di © Gianfranco Torossi // Curatela © Gianfilippo De Rossi
"Archivio come eravamo", immagine di © Gianfranco Torossi // Curatela © Gianfilippo De Rossi
"Archivio come eravamo", immagine di © Gianfranco Torossi // Curatela © Gianfilippo De Rossi
"Archivio come eravamo", immagine di © Gianfranco Torossi // Curatela © Gianfilippo De Rossi
"Archivio come eravamo", immagine di © Gianfranco Torossi // Curatela © Gianfilippo De Rossi

Chi è Gianfilippo De Rossi?

Gianfilippo De Rossi nasce a Roma alla fine degli anni ’80. Niente di particolarmente rilevante accade fino al 2006 quando si trasferisce a Los Angeles per studiare fotografia. Nella città delle stelle lavora come operatore televisivo e video maker, si forma come fotografo e incontra il maestro Douglas Kirkland, leggendario fotografo, con cui collaborerà per diversi anni e da cui imparerà importantissime lezioni di fotografia. Il suo lavoro è sempre stato incentrato sulla Street Photography, il fotogiornalismo e Reportage. Ma dal 2015 inizia a ricercare nuovi stimoli fotografici non sperimentati prima. Nasce così Urban Landscape un progetto molto differente incentrato sull’architettura (prevalentemente di Los Angeles), il minimalismo e il colore. Le sue fotografie sono state pubblicate su numerose riviste di arte e sono state esposte a Roma nel 2017 e a Berlino nel 2018/19. Attualmente vive e lavora tra Roma e Los Angeles. Qui il suo Instagram.

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