Alcune immagini ci rimangono dentro, come delle compagne di vita, altre, invece, rubano prepotentemente la scena, diventando le protagoniste assolute del nostro percorso artistico.

Nino Migliori era alle prime armi quando scattò la sua fantomatica "“Il tuffatore”. Era il 1951. La guerra era finita da un pezzo ma ancora si sentivano addosso i rumori delle bombe e le grida di dolore.

Una nuova luce colpiva la città. L'Italia ripartiva e c'era bisogno di spensieratezza e libertà, di un modo per evadere dal roboante ricordo di quegli anni nefasti e sfuggire al potere della nostalgia di giorni migliori.

Nino era un ragazzo e per lui essere libero voleva dire affrancarsi dal peso delle responsabilità per lasciarsi andare totalmente all'occulto, a quello che la vita era pronta ad offrirgli. La fotografia, per certi versi, era un mezzo adatto a questo scopo e lui, di evadere, ne aveva proprio bisogno.

Il tuffatore, 1951 © Nino Migliori

Si sentì davvero libero, per la prima volta, una mattina in quei moli riminesi in cui ogni giorno i ragazzi si tuffavano, impavidi, affrontando il pericolo della morte e sfidando, con sguardo sornione, gli amici a fare di meglio.

Ci era già stato in passato, ma non con la sua macchina fotografica.

Da lì nacque “Il tuffatore”, una fotografia che esprime perfettamente il concetto di “momento decisivo”, tramandato in quegli stessi anni da Henri Cartier Bresson, ma ristrutturato in piena salsa italiana.

Per scattarla Nino si acquattò, in un anfratto di uno scoglio, con una vecchia Rolleiflex 6×6 a pozzetto, in attesa di catturare il momento in cui il tuffatore - il capo gruppo più coraggioso - si sarebbe tuffato, creando un perfetta linea parallela tra lui e il mare.

Sembrava impossibile riuscirci. Come può un corpo umano assumere quella forma? Nino se lo chiese, più volte, come uno scienziato di fronte all'ennesimo esperimento fallito, ma dovette ricredersi, perché come accade nelle migliori storie, ogni ragione e senso perdono di significato di fronte al mistero della vita.

Il negativo del "Tuffatore" - da © pellerax

Fu un attimo. Scattò due fotografie, di seguito. Una sfocata e una perfettamente a fuoco. La prima la conservò, per ricordo, l'altra la mostrò, trionfante, al pubblico.

Tutto in quell'immagine era straordinariamente in ordine, in equilibrio. L’energia del salto contrapposta alla stasi dell’attesa; l'ironia del mosso del ragazzo sulla destra, fermo, immobile, alla definizione impensabile del tuffatore in movimento.

Magia, magia pura.

Un vero colpo di fortuna, che Nino ricorda con gioia, ma anche come un piccolo ago conficcato nella sua carne: è sempre lì a ricordargli dell'accaduto, della fama che gli ha "generosamente" prestato.

Quest’immagine ha girato il mondo, ha fatto conoscere il suo nome, ma lui sa che nel profondo non lo rappresenta a pieno, perché la sua fotografia, dopotutto, va oltre il semplice “momento decisivo”: è una lunga riflessione sul mondo.

Non dobbiamo essere tutti Bresson: c'è molto altro da dire e raccontare e io lo voglio fare a modo mio.

Eppure oggi, riguardandola, non possiamo che sbalordirci di fronte a questa scena onirica in cui tutto ciclicamente si ripete e in cui l’infinito abbraccia il finito.

A volte le fotografie prendono il sopravvento su di noi. Dopo averle scattate prendono direzioni che non ci immaginavamo. Sono come delle figlie che di punto in bianco maturano e abbandonano casa.

Lasciarle andare fa parte del gioco, di questo eterno scambio tra fotografo e realtà.

Che sia stata qui solo fortuna o qualcosa di più conta poco. Questa fotografia, per me, rimane un gioiello per gli occhi di ogni appassionato, un punto di riferimento per chi ama la fotografia di strada. Un regalo, che solo Nino, poteva darci in dono.

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