Nell’epoca dell’avvento delle intelligenze artificiali, ogni fotografia ci sembra falsa. Tale falsità è facile dedurre che derivi dalla natura stessa dello strumento: questa scatola di algoritmi criptati in cui due entità, generatore e discriminante, si scambiano costantemente la palla, creando dal nulla - un archivio fatto spesso di immagini non nostre - fotografie (se ancor si possono chiamare così) fitte di elementi non veri.

Vedendo una fotografia online non possiamo ora che non pensare che possa essere, in qualche modo, e anche solo in minima parte, frutto dell’interpretazione di una fredda macchina, un involucro digitale privo di qualsiasi umanità mosso unicamente dai fili delle parole chiave - fotografia di gattino sullo sgabello - e software all’ultimo grido.

Un pensiero che porta avanti con sé la convinzione che tutta la fotografia moderna non sia vera, e che sola la nostra, o quella dei grandi del passato, possa fregiarsi di essere tale. Un discorso che non fa una piega, se solo non nascondesse un grosso fraintendimento di fondo: la fotografia, naturalmente menzognera e ribelle, con la verità (intesa come rappresentazione veritiera e oggettiva di qualcosa o qualcuno) ha da sempre avuto poco a che fare, e le IA non hanno fatto altro che rimettere in circolo l’argomento: questa volta con forze e fazioni non più così tanto divisive.

Ma da quando la fotografia mente? E perché dovrebbe interessarci saperlo?

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