Molte delle storie che ci stanno a cuore partono da una stanza con acceso un televisore. Questo medium di massa, diventato presto fondamentale nella quotidianità delle famiglie americane e non, ha influenzato intere generazione, rivoluzionando il nostro modo di interagire con il mondo e i nostri cari.

Pensiamo solamente a due eventi che più di tutti hanno spiegato l'importanza e il ruolo che la televisione ha rivestito, e continua ad avere, nelle nostre esistenze.

Uno è positivo, collettivo, quello dell'allunaggio del 1969, quando tutte le famiglie del mondo si riunirono, davanti a quella scatola magica, per osservare come la Luna fosse fatta veramente. L'altro, più tragico, distruttivo, l'attentato alle Torri Gemelle (2001), un episodio che interruppe tutte le trasmissioni dell'epoca per mostrarci quello che sarebbe stato l'inizio di uno scontro infinito e terribile.

Due eventi che, senza la televisione a raccontarceli in diretta, avrebbero avuto un altro peso, potremmo addirittura asserire, passare quasi per non veritieri.

La televisione, insomma, è un oggetto culturale dal valore inestimabile. Ci tiene informati e ci intrattiene. Siamo tutti, chi più e chi meno, dipendenti da lei e dalle trasmissioni televisive che riempiono i palinsesti nei nostri paesi. Alcuni, più di altri, tanto da avergli dedicato progetti, lavori e libri ad ampio respiro.

Tra questi c'è Lee Friendlander, che in tempi non sospetti, inizio anni '60, fece della televisione la sua musa prediletta. L'intento, più che romantico, era di mettere in discussione il suo potere evocativo, suggestivo ed ambiguo.

"The Little Screens" (1961-1970) © Lee Friedlander

The Little Screens è una serie fotografica realizzata tra il 1961 e il 1970.

Lee, per lavoro e svago, frequentava spesso Motel sparsi in giro per l'America. Molta della sua fotografia dell'epoca era caratterizzata dal mito del viaggio e dalla consapevolezza che attraverso il mirino della macchina fotografica tutto potesse acquistare una nuova forma. Un qualcosa che aveva a che fare con la propria personalità ma anche con l'immagine stessa, portatrice di nuove verità.

Erano gli anni d'oro del cinema americano, un cinema che osava con le pellicole portando sul grande schermo film, storie e personaggi dalla natura contraddittoria e sperimentale. L'immagine, nelle sue molteplici forme, era plasmata per conformarsi alla nuova leva attoriale e ai suoi registi, ora più che mai centrali.

Non a caso, a colpire Lee Friedlander, durante queste sue lunghe ed estenuanti avventure nel territorio americano, furono soprattutto due elementi, ricorsivi e alquanto ambigui: il televisore, in primo piano, e gli arredi spogli e sordidi dei Motel, molto presenti, ambedue, nelle pellicole e negli articoli dell'epoca.

Arrivare a loro come soggetti di alcune fotografie fu, come dire, naturale.

In questa sequela di fotografie dai toni oscuri, ironici e sprezzanti, il fotografo americano concentra le sue attenzioni sul rapporto intimo e ritualistico tra lo spettatore e la sua televisione. Come oggetti di culto, le televisioni, hanno uno spazio privilegiato nelle stanze di ogni abitazione. Noi guardiamo loro e loro guardano noi, proiettando immagini e luci sui nostri visi imbambolati.

Il legame che si crea con questo medium freddo è immediato, come lo sono i programmi che ciclicamente vanno in onda in diverse ore della giornata.

Mostra di "The Little Screens" alla Fraenkel Gallery (2006)

Walker Evans, vedendole per la prima volta, le definì "piccole poesie d'odio, abili e spiritose" (Harper Bazaar, 1963) e non posso che trovarmi d'accordo con lui. Lee riesce perfettamente a costruire, con pochissimi elementi, delle atmosfere ricche di tensione. Ci catapulta, come se ci trovassimo noi stessi di fronte a queste situazioni, in ambienti spaventosi e premonitori di qualche male imminente.

La struttura narrativa che aleggia intorno a queste inquadrature è esemplare.

Un televisore, inquadrato orizzontalmente o verticalmente, oggetto per antonomasia ricco di innumerevoli stimoli visivi, messo a contatto con ambienti o oggetti spogli, privi di significato. Un viso, riconoscibile, a riempire tutto lo schermo del tubo catodico. Ombre a fare da contorno e da atmosfera oscura.

Il potere affabulatorio della televisione contribuisce a rendere pernicioso l'incontro con quei visi in primissimo piano. Con un gioco di rimandi e sovrapposizioni, tipico dello stile di Friedlander, gli sguardi accigliati di queste star del cinema e delle soap opera acquistano un peso, diventando entità virtuali e onnipresenti.

Decise, nelle espressioni, meno nei sostegni che li tengono in piedi davanti allo spettatore. I loro occhi ci giudicano, influenzando le nostre emozioni e le nostre scelte. Sembrano voler uscire da quello schermo e raggiungerci sui nostri divani (poltrone e letti, non a caso, sono vuoti, come a confermarci presenze invisibili).

Ma, soprattutto, le loro voci riempiono le stanze di rumore, suoni, ridefinendo la nostra quotidianità e la nostra percezione della solitudine. La televisione è sempre lì, a farci compagnia. Pronta a portarci nel suo universo elettronico e fantastico.

Un inno allo spirito isolazionista e al consumismo di una società individuale.

"The Little Screens" (1961-1970) © Lee Friedlander

The Little Screens è quindi una curiosa e velata critica verso uno strumento che da lì a poco, insieme a tanti altri "piccoli schermi", calibreranno le nostre giornate.

Lee Friendlander non ha fatto altro che individuare un ossessione, un fenomeno sociale in crescita, mettendogli la sua firma, fatta di ironia ed ambiguità, di interconnessione tra i piani di scatto e di bianco e nero efficacissimi, taglienti.

Al contrario dei colleghi, che la quotidianità la cercavano solo in strada, ha inquadrato l'oggetto rappresentativo di tutti noi, cogliendolo nei momenti in cui si rivela in tutta la sua forza e fascinazione - spezzoni di film e programmi che collaborano magnificamente con gli ambienti che li accoglie - ma anche, ridicolmente, vicino ad oggetti triviali, come un gabinetto, come per dire: "certi programmi, cari miei, fanno proprio venire il voltastomaco!".

Genio e sregolatezza, perfettamente coerente con il linguaggio di Lee Friendlander. Vere anticipazioni di quello che sarà il futuro della nostra umanità e dei nostri rapporti sociali: piccoli schermi a risucchiarci ogni energia ed attenzione.

Fotografie, insomma, che ci sembrano ora più che mai attuali.

Chi è Lee Friedlander?

Lee Friedlander è un fotografo americano. Il suo stile unico, fatto di riflessi, ombre e composizioni eccentriche, è stato riconosciuto dalla critica come uno tra i più influenti del XX Secolo. Tra i suoi libri ricordiamo America by Car, Signs e Self-Portaits.

Fonti utilizzate
  1. Lee Friedlander, The Little Screens (fraenkelgallery.com)
  2. Lee Friedlander “The Little Screens” Flip Through
  3. Lee Friedlander: Little Screens (luhringaugustine.com)
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