Sotto la giovane lente di Raymond Depardon, Glasgow diventa scenario di inimitabili atmosfere cinematografiche

Le migliori storie fotografiche partono sempre da un aneddoto, da un momento preciso nella linea temporale di ognuno di noi che si rende portavoce del raggiungimento di uno scopo che non era neanche lontanamente previsto dal nostro ego. Quelli citati sono istanti topici, potremmo dire: frangenti dell’esistenza che definiscono l’inizio di una carriera di successo o, all'inverso, l'iscrizione all'albo dei "fotografi che non ce l'hanno mai fatta". Un bivio che molti artisti dell'immagine hanno vissuto e da cui pochi - i migliori - ne sono usciti vincitori.

Quando Raymond Depardon, fotografo francese dall’occhio ludico, venne chiamato dal Sunday Times per raccontare la "Capitale europea più triste e trascurata del secolo", nessuno poteva immaginarsi - neanche lui, tanto abituato all'esotico e al vivere ai limiti dell'umana concezione - la straordinaria effervescenza di una Glasgow immersa nella rabbia, nella solitudine e nei detriti.

Quel servizio fotografico, mai del tutto pubblicato - a detta del giornale non era "pienamente adeguato alla linea editoriale" -, stupì lui quanto noi, finendo per diventare una tra le scommesse fotografiche più pazze del secolo. Scommessa a cui siamo oggi particolarmente legati, tanto da diventare trent'anni dopo dalla sua realizzazione una mostra e poi un libro: entrato alla storia come una delle espressioni più vivide di una città vista attraverso l'occhio di un fotografo di strada.

Glasgow di Raymond Depardon ha un posto d'onore nella mia libreria e se c'è una cosa che amo di questo volume, tra le tante, è la sua struttura anarchica: tutte queste immagini scattate sul momento sono il copione macchiettistico di un fotografo francese assoldato da una rivista inglese per raccontare un paese scozzese. Tutto sbagliato, sulla carta, ma forse per questo funziona così bene!

Polvere e proletariato

All'epoca Glasgow (siamo negli anni '80) era una città al culmine del degrado. I residenti erano sull'orlo di una rivolta e la politica, quella di Margaret Tatcher, non riusciva a gestire efficacemente l'accrescersi di un malcontento sempre più collettivo. Non c'era lavoro, sviluppo, vita; era un ambiente trascurato e brutale, un luogo che, fotograficamente parlando, avrebbe messo in difficoltà anche i professionisti più avvezzi alla desolazione. Era tutto detriti, polvere e proletariato.

Se c'era una cosa che ci aveva insegnato Chris Killip, autore di un altro meraviglioso lavoro sull'Inghilterra martoriata dalla thatcherismo, chiamato In Flagrante, era che raccontare un popolo sprofondato nella negatività e nell'apatia sociale era una sfida impossibile; soprattutto per chi, inglese di nascita, non lo era.

"Glasgow", 1980. Fotografia di © Raymond Depardon / Magnum Photos

Raymond Depardon, molto probabilmente, era consapevole delle difficoltà che una terra simile gli avrebbe concesso sulla strada; tuttavia, come un'ape che per le leggi dell'aerodinamica non potrebbe volare, si è spinto oltre le sue precedenti avventure, immergendosi totalmente nelle viscere di una città, che a vederla da fuori, sembra essere il set cinematografico di uno strano film sul disastro nucleare.

La sua visione è schietta, cruda; con pochissimi elementi riesce a risaltare le qualità di un impianto urbanistico dalle caratteristiche industriali e le atmosfere di un luogo avvolto nel mistero. Per uno che era stato assoldato per evidenziare precipuamente le reali differenze tra benestanti e proletariato, tra ricchi e poveri, tra interni ed esterni delle case scozzesi, non era granché come servizio fotografico. L'arte però - e accade spesso - supera la ragione. E "Glasgow" è uno di quei casi.

Le strade di Glasgow

Nel dedalo inaccessibile e spietato come sono le strade della capitale economica della Scozia, Raymond Depardon si muove agile, spiazzato da un improvviso innamoramento per un pezzo di Europa su cui non avrebbe investito, in passato, neanche un penny. Il suo reportage di Glasgow è un racconto struggente, che lascia attoniti, curiosi: ci mostra una località dalla bellezza quasi brutale: una di quelle, che al sol guardarla, sembra finta, inerme: una città invisibile di Italo Calvino.

Raymond racconta, in un'intervista per l'Università di Glasgow, di essersi trovato spaesato di fronte all'irresistibile fascino di un paese di cui non conosceva neanche la lingua. «La città - racconta Depardon - era esotica tanto quanto quelle scattate precedentemente in Medio Oriente, per Magnum Photos. Il che è strano. A Glasgow mi sono sentito subito un marziano e forse è stata questa condizione da estraneo - che non spiccicava una sola parola di inglese - a rendermi innocuo alla gente. Grazie ai bambini ho potuto avvicinarmi a tanti contesti!».

"Glasgow", 1980. Fotografia di © Raymond Depardon / Magnum Photos

Lo sguardo del fotografo francese si muove velocemente tra un ambiente e l'altro. La vastità dei quartieri, unita alla quasi totale mancanza di variazioni di luminosità, scrivono un registro visivo potentissimo, che andava solo messo in ordine, davanti l'obiettivo. Tuttavia, sono state soprattutto alcune scelte tecniche a rendere il lavoro estremamente più personale. Ce lo svela lo stesso Raymond: «L'aver deciso di scattare la maggior parte delle fotografie in sequenza, senza mai fermarmi, con un 28 mm - ed alcune, addirittura, con un 21mm, ora che le riguardo - e con una pellicola Kodak tarata su quei colori tanto derivativi di Glasgow (Kodak aveva lanciato una nuova pellicola pochi mesi fa), mi hanno permesso di godermi a pieno l'esperienza di un viaggio attraverso l'ignoto. Ho fotografato quello che vedevo: bambini, alcolizzati, poveri, i pochi ricchi che incontravo. Attraverso un grandangolare, ho colto sia le persone che gli ambienti».

E quella vastità di animo e spazio si manifesta perfettamente anche nel suo libro. "Glasgow" si apre con un'immagine molto evocativa: una grande distesa di erba, percettibilmente illuminata da quel poco Sole presente a Glasgow, in particolari momenti della giornata, che viene calpestata dal silenzioso e leggerissimo passaggio di una bambina e la sua carrozzina. In questa immagine c'è speranza e gioia per la vita; una Glasgow molto diversa da quella raccontata nei giornali.

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Estratto del libro "Glasgow", di Raymond Depardon (2016, Seuil Editore)

Raymond Depardon prende a cuore il racconto. E, soprattutto, la gente di Glasgow, sempre presente in ogni fotogramma. Le fotografie che scorrono freneticamente, come spezzoni di un film, nelle ampie pagine del volume edito Seuil, ci disorientano, conducendoci in un sistema urbanistico che, seppur trasfigurato nelle sue proprietà, lascia intravedere una luce insopprimibile.

Il fotografo francese scatta come scatterebbe un fotografo di strada di quell'epoca: rapido, tagliente; non si lascia fermare da niente e nessuno. Nessuno, tra l'altro, pur beccandolo, sembra dirgli nulla. Salvo forse, una volta, un tizio con una benda nell'occhio, che ricorda Raymond, con grande divertimento, «di avergli dato un pugno in faccia, lasciandogli un occhio nero». Le fotografie di "Glasgow", quasi tutte orizzontali, riescono a darci una chiara testimonianza del popolo scozzese e dei suoi costumi. Nel fango, nelle insegne in cartone e nei cappotti di tweed, ecco apparire l'animo di una Nazione che cerca orgogliosamente di rimanere in piedi.

In quell'ambiente tanto ben descrittoci da Depardon, sopravvivono insieme la trascuratezza e la sincerità; l'esilio e la libertà; la spensieratezza e l'agitazione politica. Mostra una transizione, che solo la fotografia riesce a gestire così bene.

Manhattan Out. La New York di Raymond Depardon.
Tutti noi affrontiamo dei momenti bui. L’inquietudine può assumere delle fattezze spaventose e chi ha toccato almeno una volta il fondo di questo esasperante labirinto, fatto di afflizioni e tormenti, e chiamato da alcuni depressione, sa bene che uscirne, illesi, è molto difficile. Raymond Depardon ha raschiato il fondo di

Il primo amore non si dimentica mai

Glasgow fotografata in quel modo non verrà più trattata da altri, neanche da Raymond Depardon, che tornato in Francia, continuerà ad interessarsi di cinema e di conflitti mondiali. «Non sono più tornato a fotografare Glasgow - racconta, nella stessa intervista - e credo che se tornassi oggi a farlo, lo farei in modo diverso. Userei un 50mm, probabilmente. Credo di essere stato un pò sciocco a scattare quelle fotografie con il 28mm nel 1980, perché sono scatti singoli e non si possono modificare. Ho camminato tantissimo senza fermarmi mai, per giorni interi. Scattavo e scattavo, senza rendermi conto dei risultati. Farei oggi fotografie molto più astratte, pezzi unici. Giornalisticamente parlando, il servizio riuscirebbe più efficace. Perderei però il legame tra ambiente e persone. E forse è stato quell'inaspettato contatto tra le cose a rendere il lavoro straordinario».

"Glasgow", 1980. Fotografia di © Raymond Depardon / Magnum Photos

Un'amore mai affievolitosi del tutto, quello tra Raymond e la città scozzese. Il fotografo francese svela a fine dell'intervista per l'Università di Glasgow, che Glasgow è stato l'unico paese del Nord Europa che "ha fotografato con estrema curiosità e libertà di visione". Non c'è stato niente e nessun altro dopo di lui.

E questo ci dice molto sulle attitudini che spesso portano i grandi fotografi a conquistarsi la nostra fiducia. Sono le storie e le scelte sconsiderate a farceli amare; sarà perché, in quei disastri e in quelle imperfezioni, ritroviamo noi stessi. Lo sbocciare dell'amore di Raymond Depardon - giovanissimo all'epoca - per un luogo sconosciuto come Glasgow, è l'esprimersi folgorante di una storia destinata a rimanere impressa nei nostri cuori. Saper inglobare nelle inquadrature l'evolversi di uno scenario e la gestualità delle persone, come Raymond ha fatto, permette di farci immergere negli ambienti, facendoceli apprezzare anche a noi.

Comprendo, altresì, le motivazioni che hanno spinto il Sunday Times a rifiutare la pubblicazione del lavoro. Queste fotografie potrebbero dire tutto e niente. Sono troppo «naturalistiche», per usare le parole di Raymond. Ma questo, a parer mio, è una virtù, più che un difetto: rende le immagini uniche nel suo genere. A volte certa fotografia richiede qualche istante in più per venire fuori. Si divincola nel buio degli archivi, cercando di ingraziarsi le attenzioni. Avere la pazienza di farle maturare quanto devono, è una caratteristica che dobbiamo essere in grado di saper coltivare. Perché se le storie sono forti, non possono rimanere ferme a lungo.

La Glagsow di Raymond Depardon è rimasta addormentata per circa trent'anni. A causa di un complesso di "inferiorità", il fotografo francese ha tenuto nascosto il lavoro; non credeva abbastanza nel valore delle sue immagini a colori. Oggi, quel complesso, è stato superato. E direi a pieni voti. "Glagsow", per fortuna, è tornato alla luce.

Glasgow, di Raymond Depardon

144 pagine a colori. Dimensioni 22.7 x 1.7 x 29.5 cm. Seuil Editore (2016). Costo 29 euro.

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Fonti utilizzate

  1. La vita moderna di Raymond Depardon (rivistastudio.it)
  2. Immaginando Glasgow: conversazione con Raymond Depardon (Università di Glasgow)
  3. Come un francese ha fotografato l'esotica Glasgow del 1980 (bbc.com)
  4. William Boyd sulla visione di Raymond Depardon della Glasgow degli anni '80 (magnumphotos.com)

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