Si può raccontare, efficacemente, attraverso la fotografia, una cultura millenaria come quella dei Campi Flegrei? Se lo è chiesto Federico Righi, fotografo per passione, e da qualche anno interessato all’aspetto sociologico della nostra società.
Federico ha passato diversi anni a fotografare i viaggiatori della “Cumana” — una nota linea ferroviaria, che unisce Napoli con l’area flegrea — cercando di entrare, sempre più in profondità, con la sua fotocamera, dentro questa cultura e la vita di questi veri e propri viandanti del tempo.
Un analisi ben riuscita, che gli è valso il titolo di Autore Regione Campania 2017, e che gli ha permesso di osservare, da esterno, come un pittore di fronte ad un paesaggio visto per la prima volta, i tratti che contraddistinguono questo popolo e la sua storia antica.
Tutto questo ha dato vita ad un progetto, “I Flegrei. Uno stato mentale”, che oggi ti racconto su FOCUS e di cui, già ti avverto, ti farà venir voglia di prendere il primo volo per Napoli.
I Flegrei. Uno stato mentale.
Non conoscevo minimamente questa zona dell’area napoletana. Non è la prima volta che la fotografia mi rende partecipe di storie di popoli o di uomini prima sconosciuti alla mia mente. E questa volta non è stata da meno. Vedendo infatti le fotografie realizzate da Federico non ho resistito alla tentazione di informarmi su quest’area, prima di buttarmi a capofitto sull’analisi fotografica del suo progetto.
Effettivamente il nome “Flegrei” potrebbe far pensare immediatamente ad una denominazione di carattere storico. L’area è vasta e la sua archeologia, a solo vederla, mi ha fatto venire la pelle d’oca per la bellezza dei particolari. Sarebbe però fin troppo facile, se non offensivo, chiudere questa straordinaria cultura all’interno di una dimensione totalmente accademica.
Federico lo sa bene, per questo è partito da un assunto inviolabile per il suo progetto: la denominazione “Flegrei” non può limitarsi ad una sola posizione geografica. I “Flegrei” sono ben altro che una comunità legata da un epiteto o da una posizione specifica nel territorio italiano.
Sono una cultura a parte, caratterizzata da una forte storia e da un’anima peperina; uno spirito forgiato dalla vicinanza con il magma del vulcano e addolcito dalle acque azzurre del mare.
Sono un popolo fiero della sua millenaria cultura e del loro “arretrato” spazio urbano. Uno spazio che ancora oggi, a fronte dell’arrivo di innumerevoli tecnologie, lascia orgogliosamente campo alle strutture mitologiche e alla natura incontaminata.
Per Federico Righi è un vero e proprio stato mentale. Una scelta di appartenenza. Chi decide di attraversare il grande tunnel spazio-temporale della Cumana, sa già a cosa andrà incontro — o forse no, ma è proprio questo il bello della nostra cultura italiana.
Nasce da qui il suo progetto, “I Flegrei. Uno stato mentale”, una serie di fotografie in cui ha concentrato le sue attenzioni sui volti, le movenze e le urla di questi pellegrini, che ogni giorno, tra i tumulti della modernità, e gli impegni imprevisti, attraversano questa galleria per raggiungere il loro lavoro — o la casa dei propri cari.
Il luogo prescelto non è casuale: è una via di passaggio, di attraversamento, tra due mondi così diversi ma uniti da una sottile linea geografica.
Mi sono chiesto il perché non raggiungere lui stesso questo posto mistico e narrare come un esploratore le gesta di questo popolo e la bellezza dei luoghi. Ma credo che lui abbia scelto di rimanere in quella che è per certi versi una linea franca, un luogo di scambio tra la modernità e la storia.
Il suo è infatti un progetto variegato, caratterizzato da momenti in cui è evidente un’attesa, per il prossimo treno o per l’arrivo di una persona, ma anche di scene vigorose di chi, dopo una giornata impegnativa, si vuole liberare, imbastendo una discussione accesa con un amico o dando sfoggio delle proprie abilità canore.
Non esiste un soggetto giusto, ma solo uno che, più di tutti, riesce a risaltare tra la folla. Federico infatti si fa trasportare dalle sensazioni, dagli odori e da quelle piccole imperfezioni che definiscono la varietà dei volti del genere umano.
Nelle sue immagini notiamo una certa predisposizione per una luce che modella i visi e che valorizza i particolari di quelle persone intente a leggere un libro o contemplare la vista a ridosso della stazione.
Mi racconta che la luce per lui è importante, come se lo chiamasse e gli stendesse un tappeto rosso verso un soggetto interessante e meritevole della sua attenzione. Una forma di aurea, che gli facesse capire come quella persona, con quella posa e quell’atteggiamento, nasconda più di quello che mostra veramente al pubblico.
Ed è proprio quel mistero, quella fascinazione verso l’ignoto, a muovere Federico nella sua ricerca del Sacro Graal. Il suo è un approccio semplice, fatto di riprese ravvicinate, dove si sente il contatto con i soggetti, e di una ricerca forsennata per le connessioni, mentali e fisiche.
Si muove all’interno del treno, dove si nota una grande varietà multiculturale, e anche all’esterno, vicino la fermata, dove le persone attendono l’arrivo di un proprio caro o immaginano di essere, con la mente, già a casa.
Una ricerca che, come mi dice lui, va oltre l’organizzazione di una sessione di scatti. La vita va avanti e lui deve stare costantemente attento a carpire quegli input che provengono dall’esterno e che automaticamente lo spingono a scattare una fotografia. Non c’è tempo per architettare nessun piano. Bisogna essere lì, presenti, a catturare il momento.
Quello che ne è venuto fuori è una raccolta congruente, varia, non definitiva ma personale, di un popolo che ancora oggi affascina numerosi studiosi e turisti e che invita le persone a farsi conoscere, perché, se ancora non fosse evidente, non hanno nulla da nascondere ma molto da raccontare.
Federico conosce bene questa cultura, è napoletano, e fin da piccolo ne ha sentito parlare in ogni dove. Ma viverla fotograficamente gli ha permesso di studiarla da un altro punto di vita. La sua è stata un attenzione quasi fanciullesca, dettata dalla curiosità e da quella voglia di entrare, con l’appoggio dello strumento fotografico, dentro questo mondo misterioso.
E quindi credo possa darti finalmente questa risposta. Si, è possibile raccontare i Campi Flegrei attraverso la fotografia, ma per farlo nella maniera adeguata, servirebbero almeno 100 fotografi. Ci accontentiamo per questa volta del bel lavoro di Federico, sperando di poter risentire parlare di questa vasta area ancora in futuro.