Westwards è un messaggio di speranza, ma anche un atto di accusa nei confronti di un paese che sta pian piano distruggendo la sua identità.

Di storie romantiche e ben narrate sull’America vista e vissuta dagli Italiani ne abbiamo lette e contemplate a bizzeffe. Sono lontani i tempi in cui potevano solo immaginarci queste terre misteriose ed irraggiungibili per farle protagoniste dei nostri sogni e dei nostri desideri più immorali e lascivi.

Il sogno americano ha da sempre fatto parte della nostra cultura occidentale e vederlo riportato fotograficamente all’interno di itinerari, fisici od immaginari che siano, è ormai diventata una pratica comune tra i turisti smaniosi di produrre cartoline per i vicini di casa e tra i fotografi amanti del viaggio on the road.

Gli esempi in tal senso sono tanti: c’è Robert Frank, non proprio italiano, ma molto vicino alla nostra terra, essendo egli svizzero, ma anche Franco Fontana, grande paesaggista che non ha resistito nel riportare anche lì, in quella terra dai mille volti e dalle mille sfumature, la sua visione della realtà fatta di colori accecanti e forme geometriche spigolose.

Esiste un vero e proprio filone di fortunate serie fotografiche sul paese più ambito al mondo e prodotte da noi italiani. Un filone in cui si inserisce perfettamente anche Westwards di Giovanni Chiaramonte: un progetto che, ti dico fin da subito, è ben lontano da tutto quello che hai visto, o sentito nominare, fino ad ora.

© Giovanni Chiaramonte

Westwards è un guardare oltre, un guardare verso occidente. Lo dice la stessa parola e Giovanni non ci nasconde il motivo di questo titolo: << Ho sempre amato il West e tutto quello che riguardava il panorama paesaggistico americano. Sono cresciuto con esso. Mi è entrato dentro ed appena ho avuto la possibilità di poterlo ripercorrere fotograficamente non ho desistito dall’inseguire il mio sogno >>.

Giovanni ha infatti passato gran parte della sua infanzia senza sapere cosa fosse l’America, prima di scoprirla in quella scatola luminosa venerata in salotto e chiamata da tutti “televisione”.

Non che non ne avesse mai sentito parlarne, ma non era mai riuscito ad immaginarsela senza farsi distrarre da tutti quei particolari mostrati sui fumetti e rei di aver ammantato questo paese di un profondo mistero da film noir.

L’America era per lui quella dei cowboy e dei grattaceli infiniti. Una terra multiculturale in cui era possibile ricostruirsi una nuova vita ed abbandonare definitivamente il passato. Insomma, il paese dei sogni e della rinascita che abbiamo imparato a conoscere ed apprezzare fin da piccolissimi.

E il suo viaggio fotografico per certi versi definisce proprio questo percorso verso la conoscenza e verso la speranza di una vita migliore. Un percorso più umano che artistico, che tocca l’aspetto sociale dello storico pellegrinaggio dai paesi del Sud, affrontato da molti emigrati, e che cerca di interrogarsi, nel mentre, sul destino di questo territorio che non ha mai smesso di fermarsi o di puntare al successo.

Un’apertura totale da parte sua, vista fotograficamente attraverso questa linea dell’orizzonte sempre evidente che taglia la scena in due parti ben distinte, ma anche una chiusura mentale, spirituale, da parte di una popolazione attuale che ha da tempo messo a tacere le voci di questa terra per perseguire un’ideale capitalistico.

L’America che integra, che guarda lontano e che abbraccia tutti, ma anche un’America che ha distrutto pian piano la sua identità e le sue origini per primeggiare su tutto e tutti.

© Giovanni Chiaramonte

E lo notiamo subito, l’America di Giovanni Chiaramonte non è quella del caos o dei grattaceli, e neanche quella dei paesaggi urbani ricolmi di segnali stradali o di personaggi ambigui: è una terra silenziosa, indagatrice, ormai spoglia della sua anima e dei suoi connotati e che cerca a stento di rimanere a galla.

Le immagini del progetto sono infatti caratterizzate da questa serie di paesaggi naturali od urbani contemplati, silenziosamente, dallo sguardo del fotografo. Sono luoghi smorzati dal vento ed indeboliti dal trascorrere degli anni; scene con pochi elementi, fermi, immobili, che a gran voce cercano l’attenzione dell’osservatore.

Aleggia in queste riprese una disturbante sensazione di attesa, come se dovesse accadere qualcosa da un momento all’altro. Sembrano scene di set cinematografici dimenticati e lasciati a marcire fino alla loro totale dissoluzione o, per usare una correlazione più moderna, frame di Google Street View.

Dovremmo odiarli, ripudiarli e chiederci come poter cambiare la situazione, ed invece li adoriamo fin da subito, consci che dietro a quelle strade e a quelle spiagge si nasconda una profonda malinconia e una voglia di riscatto. Non possiamo farne a meno e non possiamo frenare quella voce interiore che ci dice “questa è la vera America, quello che hai visto fino ad ora, in TV e sui giornali, non ha nulla a che vedere con lei”.

Guardare verso occidente, ma anche verso noi stessi. Avere la capacità di domandarci quale sarà il nostro futuro e quali straordinarie occasioni ci donerà la vita. Westwards è un progetto che si lascia guardare e si lascia analizzare da diversi punti di vista.

Giovanni è orgoglioso di essere riuscito a costruire un itinerario che, paradossalmente, è infinito, come la prospettiva della sua visione, ed è inoltre consapevole che non possa esistere, ad oggi, una sola interpretazione del suo lavoro, perché quando meno te lo aspetti, spunta sempre un qualcosa che può farti ritornare sui tuoi passi.

E lui lo ha vissuto in prima persona, quando pensava di aver ormai completato il suo viaggio ed è stato costretto a ripercorrere le sue stesse orme. È bastata la scena di questa ragazza che legge il salmo al monumento dell’olocausto — quella della copertina di questo articolo — per destarlo dal suo pessimismo e ridargli speranza per un futuro migliore.

L’immagine chiude il suo lavoro e, da parte mia, credo non esista messaggio migliore per ricordarci come possa esistere ancora una società tesa al miglioramento di se stessa. Una società pronta a mettere da parte i dissidi inutili e ad accogliere, una volta per tutte, l’uguaglianza di genere, di razza e di religione, anche a discapito di una riduzione egoistica o idealistica.

La favola americana, quella vera, quella che i film hanno provato a raccontarci ma che nella realtà dei fatti è ben lontana dai suoi ideali. C’è ancora speranza e l’unico modo per liberarsi del tutto dal demone del denaro o del successo è tornare alle origini e lasciarsi alle spalle tutto il resto.

Tornare a guardare verso occidente, verso la complessità della vita e verso la bellezza del mondo. Una sfida che ci lancia Giovanni e che dobbiamo essere in grado di coglierla subito, prima che sia troppo tardi.

Fonti: Themaprogetto.it, Artribune.com, Sito Giovanni Chiaramonte
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