L'estate è una stagione ricca di malinconia. Non so cosa renda questo periodo, contrassegnato dal sole e dai viaggi low cost, così propenso a stimolare in noi ricordi e vicende già vissute.

Sarà la salsedine, le giornate lunghe, i pranzi abborracciati, oppure quell'inestimabile sensazione che ogni cosa, anche la più lugubre o folle, sarà solo un lontano ricordo, destinato ad assopirsi, lentamente, con l'arrivo dell'inverno.

Tante esperienze e pochi testimoni.

A custodire il ricordo delle nostre avventure c'è spesso solo una lunga sequela di immagini ingiallite, conservate in album fotografici dalle copertine fantasiose e ripescate, per il pubblico ludibrio, nei momenti più inopportuni.

Scorrendole ci imbattiamo, come esploratori, in visi, contesti, scene e persone di cui non ricordiamo il nome, ma con cui sentiamo, nel profondo, di aver intessuto, in questa o in un'altra vita, una possibile connessione.

Queste connessioni le ho scovate, per certi versi, nelle fotografie di "Irish Summers", di Harry Gruyaert: un racconto intenso ed intimistico del fotografo belga in viaggio per le coste irlandesi.

"Irish Summers", 1983-84 di © Harry Gruyaert

Agli occhi di un uomo comune, questo racconto, potrebbe sembrare essere l'ennesima narrazione, poco ispirata, sul mare e sui bagnanti.

I segnali, d'altronde, ci sono tutti: persone distese supine a prendere il sole - o qualcosa che gli somiglia vagamente - bambini in costume che si tuffano dagli scogli e paesaggi marittimi dalle bellezze evanescenti.

Eppure, qui, non so, c'è qualcosa di diverso, un sesto senso che si attiva subito e che mi porta a pensare che queste situazioni, fotografate in tutte le salse, anche da illustri colleghi come Martin Parr, sotto sotto, ci appartengono un pò a tutti.

È possibile tutto ciò?

Sono rimasto tremendamente affascinato da questo lavoro, dalle sue atmosfere e dai suoi eccentrici personaggi - il libro, tra l'altro, è stampato benissimo.

In scenari che sanno di incredibile, fatti di colori pastello, nuvole minacciose e pisolini all'aria aperta, Harry si finge un pittore, mettendo il suo cavalletto, una Leica M munita di un 50mm, di fronte al mondo che lo circonda.

A guidare il fotografo belga nella scelta delle inquadrature, degli ambienti e dei colori c'è una maestria da far invidia ad artisti molto più affermati di lui.

Basta guardare le prime fotografie per capirlo:

A ridosso di liminari spiaggeschi, ed entrate di tavole calde dai toni caldi e brillanti, la vita si fa leggera, audace, erigendo di fronte all'osservatore un immaginario indimenticabile.

Mare, spiaggia, cielo, strade gremite di festoni e gelati sgocciolanti.

Harry Gruyaert ha un trascorso da regista e quando inquadra la realtà mira a rendere tutto perfetto, sistemato, quasi finto nelle sue impalcature.

Le sue, infatti, sono tutto fuorché immagini turistiche: come dei set cinematografici studiati a menadito, e tirati su solo giusto il tempo per una fotografia, ci raccontano lo strano binomio tra la forza dirompente della natura, sublime ed indomabile, e l'eccentricità di un popolo dal cuore d'oro.

Harry Gruyaert si muove con lo sguardo curioso di chi vuole capire, ma anche di chi vuole farsi suggestionare dagli ambienti e dalle persone che lo sfiorano.

In un percorso tutt'altro che scontato, passa, fugacemente, dalla natura all'uomo, dai luoghi affollati alla solitudine di un parcheggio senza macchine: un climax narrativo che ci guida dentro un'Irlanda accogliente e spensierata facendocela apprezzare anche nei più piccoli dettagli.

L'atmosfera è fiabesca, teatrale, ammanta ogni situazione e fa da collante tra i diversi scenari incitandoci a prendere parte a quei momenti trasognanti e a costruire, insieme a loro, un ricordo comune.

L'Irlanda è così lontana, eppure così vicina.

In queste fotografie non c'è "il viaggio di qualcuno in luogo" ma l'intreccio di numerose esperienze e sensazioni che ci fanno pensare che lì, in quella apparentemente triste località, ci abbiamo lasciato un pezzo della nostra storia.

La fotografia gioca, a volte, brutti scherzi e qui, quel sospetto, solo anticipato in apertura, si fa ancora più forte: siamo noi di fronte a questi scenari? O sono ricordi di qualcuno che ci è stato vicino? Ci sono stati raccontati? Oppure li abbiamo vissuti veramente?

"Chi sono? E chi ero un tempo?"

Una risposta aleggia nell'aria e si fa persistente, prende forma e cambia, di volta in volta, la sua deposizione. Guardando queste immagini è facile pensare all'effetto "wow", dovuto ai contesti inquadrati.

È solo quando inizi però a immedesimarti in quei luoghi e in quelle situazioni che capisci di essere, invece, già fregato, di esserci cascato di nuovo, perché "Irish Summers" è un piccolo intruglio magico, un racconto che si insinua nella mente e che rischia, meravigliosamente, di inquinare i nostri ricordi.

La sua forza è inarrestabile e noi, da amanti della fotografia, non possiamo che rimanerne totalmente (s-)travolti.

Io, dal canto mio, ci sono cascato con tutti i piedi.

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