Prima regola del Photo Club di Henri Cartier Bresson? Non mettere mai in dubbio l’attendibilità dei suoi comandamenti.

Fino ad ora ci eravamo crogiolati nell’idea che il più importante fotografo del XX Secolo, Bresson, il propugnatore della dottrina dell’intoccabilità della realtà, non avesse mai ritagliato le fotografie.

È una di quelle certezze inconfutabili, che ti dicono le prime volte che ti avvicini al mondo della fotografia, e che dai subito per vere, senza controbattere, senza chiederti se esista un’altra versione dei fatti.

Come andargli contro dopotutto. Ce lo dice lui, nelle sue interviste, dove ripeteva spesso che ritagliare le fotografie era come recidere il contatto con quella realtà catturata; ma anche i libri di storia della fotografia, quando parlano sontuosamente delle gesta di questo grande artista.

“Rifilando il negativo sotto l’ingranditore, l’integrità della visione non c’é più”.

Una posizione ben decisa, drastica, quasi da setta religiosa. La preleva dal mondo del Surrealismo e la fa sua. La segue fedelmente, come se fosse il primo comandamento di un possibile libro religioso solo da lui conosciuto.

Ogni scatto è un’impronta decisa sulla realtà, dice lui, e chi vuole entrare nel club di Bresson deve seguire questa regola, dico io, sennò sei fuori.

Ci fa sorridere leggere una cosa del genere. Viviamo in un’era in cui la post-produzione ha preso il sopravvento su tutto. Oggi mettiamo mani sui parametri e non ci facciamo scrupoli nel ritagliare o rimuovere parti dell’inquadratura che non ci interessano. Fa parte della normale routine quotidiana. Ci abbiamo fatto l’abitudine.

Eppure anche lui, l’irreprensibile Bresson, il guardiano della purezza, il difensore della sacralità fotografica, si è contradetto una volta su questo campo. Uno a zero per noi Henri. Anche tu hai ceduto alle avance del male!

La vittima designata è, ironicamente, lo scatto che lo ha introdotto nell’olimpo dei grandi fotografi: l’uomo con cappello che salta la pozzanghera.

FRANCE. 1932. © Henri Cartier-Bresson

Sembra proprio che al fotografo francese non piacesse tanto un palo sulla sinistra dell’inquadratura che, secondo la sua opinione, toglieva enfasi all’atto esplosivo del salto, attirando, inoltre, l’attenzione dello spettatore sul parte sbagliata del fotogramma.

ZAC! Un colpo di forbice e tutto è tornato in equilibrio. Bresson è felice e il pubblico ancora di più.

Un ritaglio giusto, se ci pensiamo, suffragato dal successo eclatante che ebbe successivamente l’immagine, tanto da diventare il portabandiera del “momento decisivo” per tutti i suoi adepti. Ma questa è un’altra storia…

Qui, quello che ci risulta essere straordinario, è che anche uno come Bresson, tanto lontano da tutte quelle procedure “blasfeme”, riconducibili alla camera oscura, e da lui sempre aborrite, abbia dovuto cedere alle tentazioni di questo diavolo chiamato ritaglio.

Perché vuoi o non vuoi il processo fotografico non si conclude nell’atto dello scatto della fotografia. Ci sono tanti altri passaggi che vanno rispettati e, nel giusto, tollerati.

Oggi non esiste un solo fotografo che prenda una fotografa e la stampi, o la pubblichi sui Social Networks, eccetto chi non lo faccia per mestiere, senza prima dargli una “ritoccatina”.

E qui non si parla di stravolgimenti eclatanti di un’immagine, ma di cambiare qualche parametro, di rimuovere quelle imperfezioni che potrebbero distrarre lo spettatore dalla visione della fotografia e di ridurre, magari, la distanza dal soggetto.

Ci accontentiamo di poco si, quanto basta per rendere i nostri piccoli frammenti di realtà il più digeribili possibile.

Perché, non prendiamoci in giro, sappiamo già come post-produrre le nostre immagini ancor prima di aver premuto il pulsante di scatto. Possiamo dire che il nostro lavoro è completo solo quando decidiamo di premere “salva” sul nostro programma di post-produzione.

Anche io, all’inizio della mio percorso fotografico, odiavo ritagliare le mie fotografie. Lo ritenevo un atto profanatorio, esecrabile, quasi come commettere un omicidio di fronte ad una platea di spettatori.

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Ma poi ho capito che non aveva nessun tipo di senso questa cosa e che stavo sottovalutando la bontà di certe immagini che, con qualche piccolo ritocco, avrebbero potuto dire molto di più.

Bresson ammise che quella piccola modifica era giustificata dal fatto che non poté inquadrare correttamente la scena. Noi, al fronte della nostra umiltà, sappiamo che ogni tanto tornare sui propri passi fa bene, e che cambiare opinione, a volte, è sinonimo di intelligenza.

Apprezzo il lavoro del fotografo francese e continuerò ad ammirare, anche dopo aver saputo questa cosa, il suo percorso artistico.

Ma d’altra parte so bene che la fotografia non è una scienza esatta e come tale, accettare ad occhi chiusi delle regole senza prima esaminarle, è un modo come un altro di rinchiudersi dentro un recinto senza vie di uscita.

Bresson sarà pure una divinità per noi; ma ogni tanto anche le divinità si sbagliano.

Fonte: Un'autentica bugia. La fotografia, il vero e il falso (Michele Smargiassi, Contrasto).
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